Come nasce in Dostoevskij il problema della libertà? Per rispondere dobbiamo, brevemente, esplicitare la concezione antropologica con la quale il nostro Autore si imbatte. Essa è determinata dalla convergenza delle tre grandi correnti di pensiero che hanno dominato il secolo scorso. Innanzitutto quella illuministica: l'uomo è definito dalla sua natura sostanzialmente positiva; se è sostenuto da una corretta applicazione della ragione alla realtà, egli può giungere all'armonia universale. L'uomo è buono purchè si affidi alla forza della sua ragione: il vecchio dogma del peccato originale è ormai eliminato, non entra più a definire l'antropologia. La concezione romantica, pur assistendo al fallimento dell'illuminismo, ne condivide l'ottimismo collocandolo però nel sentimento umano. Il luogo in cui l'uomo coglie la pienezza della sua esistenza come incontro tra infinito è il sentimento; basterà una buona "educazione sentimentale" per generare delle "anime belle alla Schiller". L'ultimo passaggio antropologico è quello del naturalismo deterministico: l'uomo è definito dalle sue condizioni materiali (le "fibrille del cervello" di Raktin - FKS17): egli è un grumo di materia che attraverso l'evoluzione potrà raggiungere la sua liberazione. Queste concezioni, per Dostoevskij, erigono contro l'uomo "un muro di pietra" che lo imprigiona, contro il quale egli cozza senza poterlo sfondare. Ed è a partire da questa percezione che Dostoevskij inizia ad elevare la sua protesta.
"Ma quale muro di pietra? Ma naturalmente le leggi di natura, le deduzioni delle scienze naturali, la matematica. Quando ti dimostrano, per esempio, che tu discendi dalla scimmia, beh, c'è poco da accigliarsi, devi accettare il fatto com'e. Se ti dimostrano che una sola goccia del tuo grasso dev'esserti più cara di centomila dei tuoi simili, e che in questa conclusione si risolvono alla fine tutte le cosiddette virtù, i doveri e tutte le altre chimere e pregiudizi, ebbene bisogna che accetti il risultato della dimostrazione, giacchè non c'è niente da fare, due più due fa quattro, questa è matematica. Provatevi un po' a replicare" (MdS 212-213). Dostoevskij si scaglia contro questa concezione perchè la sua percezione esistenziale, il sentimento che ha di sè, la sensazione geniale della propria autocoscienza, del proprio valore, lo porta a dire che "l'animo umano è immenso, fin troppo immenso"; non si può ricondurlo a semplici definizioni soprattutto consegnando queste definizioni alla pura forza razionale, perchè ci sono "troppi enigmi che opprimono l'uomo sulla terra" (FK 175). Forse che tutta questa complessità dell'esistenza di ogni uomo si può ricondurre dentro una misura razionalisticamente intesa? No! L'uomo non può essere ridotto ad un tasto di pianoforte o ad un pedale d'organo nè la convivenza umana ad un formicaio brulicante o ad una caserma carnaio.